20 aprile 2017

Obbligo di fedeltà in azienda: come interpretarlo?

Ho letto poco fa un articolo su La Stampa su una psicologa che ha vinto una causa contro l'ASL1. Secondo il giudice (e anche secondo me) era stata ingiustamente sospesa per il fatto di aver denunciato su Facebook le pietose condizioni del luogo di lavoro che le era stato assegnato, pubblicando foto e commenti denigratori. Del resto le foto erano vere, e il luogo di lavoro era effettivamente pericoloso e fatiscente. Quindi con che coraggio l'ASL1 aveva deciso di punirla?

Questa vicenda mi ha ricordato un fatto di qualche anni fa. Mi lasciò perplesso una clausola che una cooperativa di servizi inseriva nei contratti di ingaggio di professionisti della salute e operatori di assistenza in una casa di riposo.

Questa clausola, si leggeva nel contratto, vietava al professionista

"di comunicare e divulgare a terzi qualsiasi tipo di dato, informazione, notizia inerente l’organizzazione aziendale, i singoli servizi e gli utenti di cui viene a conoscenza durante le prestazioni professionali e dopo la cessazione delle stesse, e a non utilizzare, né in proprio né a favore di terzi, dati o fatti inerenti la Cooperativa e le strutture in cui opera"

Dopo una ricerca sul web del codice di riservatezza, sancito dal codice civile, trovai questa pagina dedicata al diritto, dove un legale rispondeva alla domanda di un utente. Nella sua risposta, fra l'altro, si legge un riferimento al cosiddetto obbligo di fedeltà:

[...] anche successivamente alla scadenza del contratto, non avrai facoltà di "divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio"(pensa ad esempio, alle opere tecnologiche innovative, assoggettate a brevetto, ovvero all'esito degli studi e delle ricerche scientifiche, di cui ti occuperai all'interno dell'azienda). [...] L'obbligo sussisterà fino a quando l'imprenditore/ex datore di lavoro avrà interesse a tale segretezza, ossia fino a quando l'azienda svolgerà la sua attività, nello specifico settore imprenditoriale in cui opera attualmente. In caso di violazione dell'obbligo di fedeltà, successiva all'estinzione del rapporto di lavoro subordinato, sorgerà nei tuoi confronti, una responsabilità civile, ossia sarai obbligato a risarcire il danno patrimoniale, cagionato al tuo ex datore di lavoro."

Ok, il Codice Civile vieta la divulgazione di notizie che cagionerebbero un danno all'azienda. Se il lavoratore lo fa, l'azienda può citarlo in giudizio e chiedere il risarcimento per quel danno (a patto che quel danno venga dimostrato, immagino). Ed essendo ciò sancito da una legge, vale anche se non è scritto nel contratto.

Ma in quel contratto il divieto era più esteso. Non si vietava soltanto la diffusione dannosa di informazioni. Si vietava la diffusione di informazioni. Anche se non dannose. E questo anche dopo la fine del rapporto di lavoro.
Praticamente se accetti quel contratto, 20 anni dopo che hai smesso di lavorare per quella cooperativa non puoi confidare a tuo fratello uno dei "fatti inerenti la cooperativa e le strutture in cui opera", ad esempio che una volta un tuo collega è stato licenziato, o che una volta alla cuoca è caduto di mano un piatto.
Altrimenti, pur non arrecando danno alla cooperativa violi il contratto. E quindi potrebbe esserti chiesto un risarcimento per contratto non onorato.

Ma... ma... MA...

...per prevedere una sentenza, a quanto pare, non sempre è sufficiente leggere il significato delle parole di un contratto e di una legge. A volte, legge o non legge, contratto o non contratto, il giudice aggiunge del suo.

Ad esempio, premesso che sono contento della sentenza che ha dato ragione alla psicologa, non posso non notare che la legge le dà torto: nel Codice Civile c'è scritto che è vistato di divulgare notizie attinenti all'organizzazione. Non c'è scritto che "però quelle informazioni puoi divulgarle se corrispondono a verità, o se sono facilmente reperibili".

Quindi, per l'ennesima volta, dititto italiano... BOH.

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